Un amico qualche giorno fa mi ha inviato una poesia di Eugenio Montale facendomi improvvisamente tornare alla mente versi e ricordi appena di un soffio sotto la cenere. Lui è forse l’unico poeta che mi abbia davvero ispirato tra quelli studiati al liceo. Notoriamente la scuola non riesce a farti apprezzare ciò che ti tocca studiare, men che meno la poesia.
I versi richiedono un loro tempo e spazio per farsi strada e risuonare dentro, non possono venire relegati al rango di materia, in mezzo ad altre, che si deve sapere. Come la storia da cui forse non abbiamo imparato granchè. La storia appunto ritratta in questa poesia di Montale, che non è magistra di un bel niente. E mi fa riflettere sul fatto che, anche in questo caso, se forse non fossimo stati obbligati a studiarla, magari saremmo stati capaci di trarne qualche insegnamento indispensabile e in grado di resistere agli urti del tempo.
Io però oggi voglio riportare un altro componimento dell’autore, che sento ancora un po’ più mio, che mi restituisce la fatica e la solitudine dello scrivere, che prima di tutto sono quelle dell’animo da cui scaturiscono. Un’opera molto umana, essenziale come le parole usate, perfino secca. Il risvolto doveroso della natura della poesia, l’altra faccia del poeta. Non ci sono risposte nè domande, non consolazione nè comprensione. Come quella storia, che semplicemente si compie, snodandosi e nient’altro. Oggi va così.
NON CHIEDERCI LA PAROLA
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(Eugenio Montale – da “Ossi di seppia”)
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Procedo, senza alcun metodo, per associazioni mentali, più o meno sensate. Con un doppio salto mortale all’indietro, Emily Dickinson, 1862 (non molto frequentata dalla scuola italiana).
I read my sentence -steadily –
Reviewed it with my eyes ,
To see that I made no mistake
In it’s extremest clause –
The Date, and manner, of the shame –
And then the Pious Form
That “God have mercy” on the Soul
The Jury voted Him –
I made my soul familiar – with her extremity –
That at the last, it should not be a novel Agony –
But she, and Death, aquainted –
Meet tranquilly, as friends –
Salute, and pass, without a Hint –
And there, the Matter ends –
Anche in questa poesia c’è una certa crudezza. Qui è dettata dall’impossibilità di sottrarsi alla morte, e di nuovo il non cercare risposte o comprensione di fronte a certi misteri. La cosa singolare però è che a me nessuno di questi componimenti (nè quelli di Montale, nè quelli – che conosco – di Emily Dickinson)lascia mai una sensazione di vero dolore, di abbandono o negatività. Miracoli della poesia. Grazie per questo bello spunto!!