L’alfabeto degli amanti

Ben prima che l’anno scorso ci lasciasse un po’ più soli nei versi, io lo avevo annoverato nella mia collezione di immortali. Un libricino della colonna miti poesia, di 3900 lire, acquistato a cavallo tra l’adolescenza e la maggiore età, letto avidamente, quando al suono di quell’amore grandioso e sanguigno composto in ogni vocabolo, riuscivo a dare poco più che un labile senso incarnato. Allora era più un vagheggiare il sentimento che non viverlo sulla mia pelle e sperare in una simile manifestazione.

E’ confortante ricordarsi ogni tanto di aver avuto poeti come Alberto Bevilacqua. L’italiano poi è una bella lingua: è musicale, ricca di sinonimi, complessa, caratterizzata. Si presta bene alla poesia. Forse perchè è la mia lingua. Forse perchè noi abbiamo avuto tra gli altri Dante Alighieri, il poeta per antonomasia. Qualcosa vorrà pur dire. O siamo più bravi a scrivere, o più ad amare. O forse le due cose.

E come l’apice stilistico di certe opere rimane intraducibile, anche quegli stessi amori che vi hanno abitato lo diventano. In questa lingua serve essere abili artigiani, saper ascoltare le suggestioni della parola, lasciale scorrere ripetutamente per poi sdraiarsi ed abbracciarne tutta l’estensione delle possibilità offerte. E’ un atto d’amore. E di maestria. Usare parole come fortuito, incombenza, accoppiare, facendole vibrare, risultare melodiche, indispensabili a quel registro e a quell’amore. Che è si carnale, terreno, lacerante ma pur sempre sublime in quel suo continuo tentativo di espressione e ritrovamento nell’altro. C’è sempre un lavoro di ritocco, artistico ma insieme esistenziale, di tensione verso un livello più elevato: c’è in questo autore la massima espressione del potere e l’attesa di essere stupiti, come disse di lui Jorge Luis Borges, altro grande maestro della parola.

Nelle poesie di Bevilacqua l’amore sembra essere tutto, e tutto ciò che non si può avere nè dire: nemmeno gli essenziali alfabeti degli amanti si ritrovano più in un corpo. Si vivono ed esplorano, si feriscono e si concedono; forse senza sapere mai qualcosa di più di ciò che il momento suggerisce.

Trovo meravigliosamente poetico pensare che l’amore sia in fondo un segreto, sia la meta a cui non si arriva, un codice con cui ci si rivela almeno quanto ci si nasconde. Rileggere le poesie d’amore di Bevilacqua oggi mi dona lo stesso batticuore di sempre e mi dà ragione: se non ho capito nulla dell’amore è perchè non c’è nulla da capire. E’ stato come tornare a quell’adolescenza.

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È STATO FORSE

È stato forse
un fortuito incontro di strade
quella metà del nostro segreto
che hai lasciato
a me come incombenza:
è dura, adesso,
il doverla accoppiare
– il problema, vedi, sta nella parola,
puoi dirle tutte le parole che sai,
puoi scavarle dentro la tua vita
farti sanguinare le dita,
gridarle col silenzio nella gola:
ma nessuna, credimi, nessuna
aspetta più l’incarnazione,
tantomeno
gli essenziali alfabeti.

(Alberto Bevilacqua – E’ Stato forse tratto da Legami di sangue)

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