Carta canta

Minacciose nubi sui nostri ricordi. E’ di un paio di settimane fa la notizia dell’Huffington Post del vicepresidente di Google, Vinton Cerf, che ci racconta del rischio che corriamo, tutti noi, uomini e donne dell’era digitale, di vedere persi i nostri documenti e le nostre foto digitalizzate in un futuro prossimo, quando i continui aggiornamenti dei sistemi operativi e dei software apportati ai pc, li avranno resi inaccessibili, imperscrutabili.

Proprio noi? Noi dalle vite tanto frenetiche, oberate di incontri, esperienze, relazioni, puntualmente descritte da continui post sugli amati social. Noi, schiere di blogger, web-designer, web-marketer, guru dell’on-line, vittime designate del selfie e paladini della fotografia selvaggia, ormai decisamente più versati nel immortalare un momento che nel raccontarloTutto ciò ha il sapore di un’amara beffa. Di una nemesi silenziosa del caro vecchio cartaceo su ciò che rischia di diventare “marciume digitale”, come lo chiama Cerf. Che per altro direi una voce del tutto autorevole nell’ambiente, non il solito menagramo detrattore della tecnologia e dei suoi benefici.

Cosa rimarrà di noi nei ricordi dei nostri figli, in quelli dei figli dei nostri figli e così via, forse spingendoci un po’ più in là per realizzare pienamente la portata di una tale possibilità? Cosa sarà rimasto di tutta questa abilità indiscussa che abbiamo nell’affollare l’etere, così come le nostre esistenze? Sembra complesso prevederlo oggi; anche il vicepresidente di Google non è propriamente categorico nella sua analisi eppure a me questo articolo ha lasciato un sapore di strano presagio in bocca. E non solo negativo.

Anche un po’ di sano retrogusto di soddisfazione, devo ammetterlo. Perchè questa rivelazione mi ha fatta sentire del tutto a mio agio con la mia nostalgia, con la tendenza a lasciare che la mente vaghi sempre almeno un po’ intorno ai miei ricordi, al dolce-amaro mondo del passato, senza farmi sopraffare e cercando ogni volta nuovo materiale di vita. E sono puntualmente atti di scrittura, di poesia, o di un qualche analogo sforzo di resistenza, a lasciarmi vivo dentro tanto quel ricordo, quanto la sublimazione dei sentimenti che esso mi da.

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Nonostante, e forse anche in parte grazie, al mio blog io continuo ad amare oltremisura carta e penna, come un’inguaribile romantica, come l’ultima Giovanna D’Arco del cartaceo. Quando mi ritrovo tra gli scaffali di una libreria o, come ieri, ad una bancarella di libri usati, mi viene naturale annusare le pagine dei libri, fare caso alle pieghe e alle notazioni che ci sono, a quanto il passaggio di mano in mano abbia restituito giustizia alla storia contenuta in quelle righe. E non basta. Anche con le foto è altrettanto impegnativo. Tengo a loro allo stesso modo se non di più e a volte l’esposizione su una pagina pubblica mi sembra la più sicura garanzia di perdita. Di quel sapore unico che la foto contiene, della particolare irripetibile preziosità che conserva.

Che dunque questa minacciata putrefazione dei bit possa invece trasformarsi in una buona occasione per ridare importanza ai vecchi supporti, ce lo suggeriscono silenziosamente tanti, tantissimi grandi del passato: artisti e pensatori che di sè sono riusciti a lasciare un memorabile ricordo attraverso le gesta vissute. O addirittura senza di esse. Qualcuno di cui si continua a leggere con intatta emozione, senza che la sua vita ne abbia annoverato chissà quale impresa eroica. Che non siano piuttosto i loro scritti la vera impresa eroica?

Indubbiamente sì, e anche questi post ne sono la testimonianza. E’ intuitivo concludere che così come oggi sia estremamente facile lasciare innumerevoli tracce di noi, forse potrebbe essere altrettanto semplice che queste tracce vengano perse nel nulla, nel più sconfortante oblio. Ad un simile urto del tempo si deve pur ovviare: scrivere, come disegnare, comporre una musica o un’altra forma d’arte, non sono che mirabili atti di sopravvivenza, sfide più profonde alla nostra paura di morire, di scomparire senza aver lasciato un qualche segno del nostro passaggio.

Certezza della nostra mortalità e anelito di immortalità. La somma di queste due realtà fa poesia. E’ per me una sorta di atto di fede per cui vengo puntualmente ripagata aprendo certe pagine, leggendo e rileggendo taluni componimenti, rispolverando poeti lasciati per un po’ da parte. Talvolta mi capita di pensare che loro siano affezionati a me e che tengano al mio equilibro emotivo almeno quanto io alle loro opere: il segnalibro di oggi è la prova. Cadeva su una poesia che mi è arrivata come risposta a quegli interrogativi, i cui versi sono stati una consolazione sussurrata alla nefasta previsione della disintegrazione di tutto il materiale della nostra vita, di tutti i suoi ricordi.

Appena riletti, sono rimasta basita. Sono sicura che affiancati alle parole di Vinton Cerf e alla sua analisi, sortiranno lo stesso effetto per alcuni di voi.

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Per completezza di informazioni aggiungo che l’autrice è Emily Dickinson, che qui ci racconta del tempo, del poeta e della relazione tra i due. LA relazione, quella da cui discende il senso di tutte le altre. Il teatro di vita di questa autrice senza tempo, è il caso di dirlo senza nemmeno fare dell’ironia, fu per la maggior parte dei suoi anni la stanza della sua casa, in un ambiente rigidamente puritano e solitario. I dati della sua biografia fra i più banali e noiosi di tutta la storia moderna.

Che dalla penna di una persona che ebbe come rapporto più profondo quello con la propria solitudine, possano uscire simili, e molti altri, versi è semplicemente stupefacente. La poesia data 1862: a mio parere potrebbe essere stata composta questa mattina come un anno fa. Potrebbe persino collocarsi in un futuro prossimo. E’ autenticamente, anch’essa, al di fuori del tempo.

A me ha lasciato addosso imbarazzo, silenzio e gratitudine. Che forse pensandoci un attimo, assomiglia al mix di emozioni che lascia sul serio la vera arte. Una traccia inequivocabile di immortalità. Riporto, con orgogliosa sfacciataggine, questa poesia nella mia personalissima selezione di quelle che si commentano da sole. Non esiste furto che possa turbare il Poeta, nè lancetta che possa decretarne la morte.

Niente da aggiungere, solo da incidere sul cuore. E ricordare, diciamo da qui in avanti per sempre.

 

THIS WAS A POET

This was a Poet – It is That
Distills amazing sense
From Ordinary Meanings –
And Attar so immense

From the familiar species
That perished by the Door –
We wonder it was not Ourselves
Arrested it – before –

Of Pictures, the Discloser –
The Poet – it is He –
Entitles Us – by Contrast –
To ceaseless Poverty –

Of Portion – so unconscious –
The Robbing – could not harm –
Himself – to Him – a Fortune –
Exterior – to Time

ECCO CHI FU UN POETA

Ecco chi fu un Poeta-
Chi distilla la sorpresa di un senso
Da Significati ordinari –
Ed estrae Essenza infinita

Da specie familiari
Che si estinsero alla nostra Porta –
Ci chiediamo se si sia stati Noi –
Proprio noi a fermarle – per primi –

Le Immagini, le rivela
Il Poeta – è Lui –
Per Contrasto – a investirci –
Di una Povertà imperitura-

Di quanto è suo – inconsapevole –
Al punto che – gli fosse rubato –
Non ne patirebbe- la sua –
Una Ricchezza – al di fuori del Tempo –

(Emily Dickinson – Sillabe di seta)

 

 

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Emily Dickinson – SILLABE DI SETA
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5 Comments

  1. Pingback: Conservazione dati nell’era digitale | pietrobarnabe

  2. Caro Pietro, grazie per il tuo supporto tecnico, davvero preciso! Mi auguro che possa essere sempre fattibile un lavoro di questo tipo anche se ho i miei dubbi, soprattutto per la velocità e la specificità con cui la tecnologia cambia e si rinnova. E da altri punti di vista meno male che sia così.

    Tutta la mia analisi a parte gli aspetti più tecnici era anche rivolta alla difesa del ricordo, della memoria in senso lato, quella che dura al di là e malgrado i supporti limitati, alla difesa di una parte di sè, quella che sopravvive in noi e anche in parte nell’altro o negli altri, in un luogo, in un evento che sono stati teatro di qualsivoglia avvenimento.

    E’ in definitiva anche un inno alla malinconia, ai suoi benefici più profondi, per me che ne sono inguaribilmente affetta.

    Grazie aver detto la tua, spero di rivederti presto qui.

  3. Ovvio che per noi che siamo cresciuti con carta e penna, nel mio caso con pennini ed inchiostro, resta un legame profondo con le tecnologie retro: non a caso faccio il restauratore 😀

    Ciò non toglie che si accettino e si cerchi di utilizzare al meglio le nuove tecnologie.
    Per quanto riguarda la prima parte dell’intervento, del rischio di perdita dati in un futuro prossimo, non sono completamente d’accordo. Già ora è praticamente impossibile leggere file scritti in word versione 3 o 4, o 5, se si continua ad utilizzare software proprietario: è un di sviluppo diffuso quelle per cui con le nuove versioni si perde la capacità di utilizzare ciò che si è prodotto qualche lustro prima. Tuttavia questo rischio si evita utilizzando software libero.
    Personalmente ho recuperato file che avevo scritto negli anni ’90 e che già da dieci anni word non era iù in grado di aprire, con openoffice.org e libreoffice, che continuano imperterriti a leggere anche i formati vecchissimi. Lo stesso mi è capitato con video ed immagini, realizzati nello stesso periodo.

    Ciò non ci mette al riparo in quanto è sufficiente una smagnetizzazione del supporto digitale (e la sue cause possono essere molteplici), per perdere ciò che abbiamo salvato con tanta cura. Del resto anche la carta può ammuffire e degradarsi in altri modi: pulverulenza superficiale, umidità, attacco batterico … Sono convinto che attualmente il supporto più duraturo nel tempo sia il vhs, purtroppo diventa sempre più difficile reperire un buon lettore.

    In altre parole, la capacità di conservare nel tempo i nostri prodotti è data un metodo di lavoro, più che da un supporto sicuro; con cloud, server virtulai, copie di backup (digitale ed analogico) possiamo prolungarne l’esistenza, facendo sempre attenzione al loro stato di conservazione ed adottando una puntuale pratica di manutenzione.

    Ciao, buona giornata 🙂

  4. inutile dirti che la poesia della Dickinson è bellissima, Valentina. Il passato è, secondo me, l’unico “tempo” esistente, da qualche parte, e per parafrasare un gran bel film, ogni cosa ne è illuminata…non ci stiamo accorgendo forse, ma il Poeta lo sente…di quanto la velocità della pseudolibertà dei nostri tempi digitali ci stia, nella sua liquidità, sciogliendo…non per renderci più morbidi e amorevoli ma per disintegrarci…la risposta di chi vive Poeticamente non può che essere una: esserci. e guardare al mondo con l’ intensità di chi ha memoria…

    • Caro Cris, se restiamo nella filosofia, nessun tempo a parte l’istante presente, è reale. Poi sappiamo che non è facile realizzare quest’idea perchè il passato si fa sentire eccome, a volte pesa quanto un macigno. Il futuro, con tutta l’ansia che ci portiamo dentro, ancora peggio. Quello che a me realmente importa è riempire di significati questo tempo, qualunque sia dato che appunto, mentre lo definisci, è già fuggito. Il Poeta ci riesce, cristallizza gli attimi in un non-tempo eterno e lo fa perchè come dici tu ha memoria. Una memoria che a volte temo di perdere in questo presente sempre meno palpabile. E poi grazie ad autori realmente eterni come questi mi sento meno persa. Che ne dici? Beh già il fatto di non sentirmi sola aiuta!! Grazie e un super abbraccio a te!

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