Il valzer degli addii

Forse per via di una qualche particolare congiunzione astrale o chissà che altro, questa metà di aprile porta in dote più addii che primaverili fioriture. Lo stesso giorno ci hanno lasciati due grandi della letteratura, Eduardo Galeano e Günter Grass: quanto dispiacere tutto insieme e quanta smania di fare mente locale su alcune parole indimenticabili che da qui in avanti lo saranno ancora di più. Presa dal mio solito febbrile bisogno di ricordare ho deciso che questa era la volta buona di leggere “Il libro degli abbracci” di Galeano. Giammai: esaurito, fuori catalogo, in ristampa. Bene, sono in buona compagnia: allora è vero che ci accorgiamo di certe cose quando non ci sono più o forse solo che siamo un po’ intellettuali dell’ultimo minuto, ed è la morte l’unico evento capace di riportarci per davvero di fronte alle priorità. Abbracciamoci più forte e avanti il prossimo.

Curiosando poi a caccia di ricorrenze ho scoperto che il giorno dopo, il quattordici di aprile cade l’anniversario della morte, in anni diversi, sia di Gianni Rodari che di Simone de Beauvoir; non solo, il quindici, ma qualche anno prima, moriva anche il compagno di una vita di quest’ultima, Jean Paul Sartre, così come, sempre il quindici di aprile ma del 1967, era stata la volta del principe Antonio de Curtis, universalmente conosciuto come Totò.

E, cambiando registro, vogliamo dire della data di nascita di Charlie Chaplin, il sedici di aprile? Insomma, un bel po’di scatole di fazzoletti per asciugare sudore e lacrime e tanta pazienza di scartabellare tra le opere e l’arte di tutti questi personaggi e il mio blog potrebbe avere la pensione assicurata, in quanto a materiale di cui parlare e su cui emozionarsi per i prossimi anni.

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Rischia di diventare il gioco degli specchi però perchè a ben vedere ed indagare di ricorrenze ce ne saranno sicuramente infinite altre. E così probabilmente per ogni singolo giorno dell’anno. Senza contare quello che per ciascuno di noi, evitando di scomodare simili biografie, rappresentano talune o talaltre date. E lo dico proprio oggi, quando realizzo che è venerdì 17, che in qualunque mese si trovi si gioca sempre il posto del più carico di aspettative, sebbene in negativo: io però non sono superstiziosa, e procedo con il mio post che sarà senz’altro più speciale dei precedenti, alla faccia della sfortuna.

Tra comuni mortali ed eccezionali immortali la partita è sempre aperta: la morte vince ma non convince, sconfigge l’avversario solo sul campo e cede in ogni caso di fronte alla memoria. Ma non lo potrebbe fare senza la poesia, sua prima voce e sguardo. Quante volte ho pensato che la poesia per me fosse tutta lì, tutto un tentativo cammuffato ed addolcito di capire la morte, giustificarla, lasciarla gridare in qualche modo, meno distruttivo di altri. Ebbene, visto che a giustificarla non ci sono riuscita, poichè, immagino, ed il fatto che sia qui a scrivere nè è la prova, non è della mia di morte che parlo. Capirla ancor meno, anzi peggio.

Resta a mala pena la possibilità di lasciarla gridare, lasciarle trovare un altro luogo in cui esprimersi che non siano le coronarie o il fegato. Facendo passare la scrittura nei meandri della psiche e dell’emotività a raschiare ciascuno dei piccoli grandi residui di morte che ti si stanno calcificando dentro per farla esplodere e respirare sul foglio. Una lavanda gastrica all’anima, uno psicofarmaco per il cuore. E’ tutto qui ma non è poco.

Servirebbe una conoscenza enciclopedica per potersi fare un’idea più chiara ed obiettiva però la mia impressione è che l’oscura signora con la falce e in mantello nero compaia assai poco in poesia, per lo meno nominata direttamente, chiamata con il suo nome. E quando invece accade è metaforicamente parlando, cioè riferendosi ad altro, che non sia la morte stessa.

E allora mi sento in buona compagnia anche in questo caso. Un po’ meno in imbarazzo rispetto al mio rapporto con essa. Tra le mie panacee in versi ho pensato per oggi ad una in particolare, di Wisława Szymborska. Poetessa sulla quale lasciarsi andare a commenti o descrizioni è assolutamente superfluo: più la statura di un artista è elevata più, a mio avviso, si dovrebbe interpellare la sua arte e nient’altro. Autrice comparsa con un po’ di pudore nei primissimi post di quellocheVale, quando attraverso un famoso componimento e con amabile ironia ci confessava di non sapere neppure lei cosa sia la poesia, oggi mi serve di nuovo il suo aiuto per non cadere miseramente, impedita tra malinconia e retorica.

Addio a una vista composta nel 1993, racconta di un amore e della sua fine, della morte, fisica e non solo, della dimenticanza e dell’insieme di sensazioni che tutte quante queste esperienze portano con sè. L’equilibrio della lirica è talmente maestoso che via via diventa un piacere sempre più sottile ascoltarla, sebbene parli di tali avvenimenti. La morte viene superata, diventando una misera scusa al cospetto della grandezza di tutto il resto. E di ciò che resta. La riva del lago è pur sempre bella com’era; altri innamorati passeranno di lì, altre persone vivranno in luoghi di intatto splendore da dove qualcuno se ne è ormai andato. La presenza per chi c’è ancora può diventare un insostenibile privilegio; la poesia, attraverso lo sguardo da lontano di coloro che si apprestano a sopravvivere, la salvezza.

Tutto ciò arriva con la forza di una musica: questi versi della Szymborska, “Mozart della poesia”, come definita da qualcuno, ci regalano un irripetibile valzer degli addii.

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Addio a una vista

Non ce l’ho con la primavera

perché è tornata.
Non la incolpo
perché adempie come ogni anno
ai suoi doveri.

Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d’erba, se oscilla,
è solo al vento.

Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontani sulle acque
abbiano di nuovo con che stormire.

Prendo atto
che la riva di un certo lago
è rimasta – come se tu vivessi ancora –
bella come era.

Non ho rancore
contro la vista per la vista
sulla baia abbacinata dal sole.

Riesco perfino ad immaginare
che degli altri, non noi
siedano in questo momento
su un tronco rovesciato di betulla.

Rispetto il loro diritto
a sussurrare, a ridere
e a tacere felici.

Suppongo perfino
che li unisca l’amore
e che lui la stringa
con il suo braccio vivo.

Qualche giovane ala
fruscia nei giuncheti.
Auguro loro sinceramente
di sentirla.

Non esigo alcun cambiamento
dalle onde vicine alla riva,
ora leste, ora pigre
e non a me obbedienti.

Non pretendo nulla
dalle acque fonde accanto al bosco,
ora color smeraldo,
ora color zaffiro,
ora nere.

Una cosa soltanto non accetto.
Il mio ritorno là.
Il privilegio della presenza –
ci rinuncio.

Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.

(Wisława Szymborska – tratta da La fine e l’inizio)

 

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