Un miglio nelle mie scarpe

Io non lo so voi ma per ricordarmi dell’ultima volta che ho visto una persona leggere un libro alla fermata di un autobus, alla stazione, in metropolitana o in posti di similare natura e finalità, devo fare uno sforzo creativo notevole. Un po’ sarà, e tocca dirlo, dovuto al fatto che uso pochissimo questi mezzi poichè in città mi sposto quasi solamente in bicicletta, quando non a piedi e quando umanamente possibile.

Un po’ poi è dovuto naturalmente agli odiosi, ancorché utili, super accessoriati dispositivi che portiamo in tasca ed in borsa, che ritoccano, a parer mio, oltre al concetto di attesa anche quello di fisicità: ormai è tutto un touch, uno sfregamento continuo e senza pudori rivolto all’apertura di mondi quanto mai distanti ma apparentemente conoscibili all’istante. E questa tendenza si innesta, legittimandola, sull’incapacità di gestire l’attesa con tutte le sue derivazioni, di vivere il momento senza esserne sopraffatti, gustandone invece il sapore.

Operazione che certamente, nei sottofondi metropolitani rischia di essere più triste e grigia che altro. Alle sette della sera dopo un’altamente probabile giornata di futili rincorse e discorsi manierati, avere voglia di mettersi nell’atteggiamento dell’attesa, di altra o nuova rispetto a quella delle ultime ventiquattro ore, è quasi da eroi. Idem, e per analogo processo, alla mattina. Meglio la fuga in avanti, la sospensione del momento e quale via migliore che uno smartphone a fornirci il supporto con infinite immagini e vocaboli al minuto.

Per me in effetti anche la bicicletta assolve in parte a quel compito, a braccetto con le mie velleità ambientaliste: niente tempi morti tra una tappa e l’altra, in sella alla bersagliera e uragani permettendo, via alla prossima meta. Quando mi capita invece di essere alla fermata di un qualche mezzo, oltre all’immancabile esercizio di osservazione dell’umanità che mi circonda, cerco sempre di avere un libro tra le mani, fosse anche solo per quelle due righe, anche solo per regalarmi un’illusione di fugace salvezza. E’ una specie di appiglio, decisamente fisico, di quando sto per scivolare sul fastidio dell’attimo o di quando, con tutto lo sforzo possibile, proprio non riesco a rendere digeribile il mio intorno.

Ed è stato appena prima di cadere nella solita litania quotidiana dell’essere nata nel mondo sbagliato che qualche giorno fa mi è soggiunta la notizia, sempre reperita attraverso lo schermo di uno di quegli strumenti, che ha del positivo, direi del sano. Nella città di Grenoble il sindaco ha inventato un distributore di racconti da piazzare alla fermata dei mezzi pubblici, per sollevare l’utente e cittadino in questione dall’usura della pigrizia, dal rischio di passare quei tre-quattro (che poi in Italia sarebbero anche tredici-quattordici) minuti nello sconforto, nell’abbandono momentaneo, fornendo soprattutto una poetica alternativa alla solita ginnastica dell’indice del tipico social-addicted.

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Non ci sono scuse: nessuno può essere tanto pigro da non aver voglia di schiacciare un semplice bottone per vedersi recapitare direttamente tra le mani un racconto, oltretutto modulato sul tempo previsto di attesa, perciò più lungo o corto. Chissà che di quest’altra giornata inutile non resti invece in tal modo un ricordo, un sapore di prezioso e dolce sulle labbra, qualcosa che meriti sul serio di essere annoverato tra le attività svolte.

Ma c’è anche di più. In contrasto con le sconfortanti notizie di musei che rischiano di chiudere, come quello di Antropologia Criminale di Torino Cesare Lombroso, esistono e resistono nazioni in cui se ne inventano addirittura di nuovi, come il primo Museo dell’Empatia al mondo. E in questo caso siamo a Londra. La notizia è rimbalzata per giorni su ogni social, di ordine e grandezza, postata e ripostata che nemmeno l’assoluzione di Erri de Luca o la cazzata uscita dalla bocca di miss Italia. Non c’è che dire, visto così si direbbe che siamo empatici.

Eppure sono studi americani a rivelarci che tutti quanti si stia soffrendo di un più o meno percettibile ma costante abbassamento delle capacità di ascolto e comprensione dei nostri pari: unire le nostre percezioni a quelle degli altri sembra stia diventando un’operazione a dir poco ardita che ci sta portando e ogni giorno di più, a conseguenze sociali drammatiche.

Con il massimo rispetto per questi dati, io dico che tutto ciò si evince anche da uno studio molto più grezzo ed improvvisato, come la famosa analisi da supermercato, da coda alla posta, o per ricollegarmi a prima, da fermata dell’autobus fino ad arrivare per i più coraggiosi, ad addentrarsi persino nel mezzo pubblico, dove pare si scatenino talvolta le più squallide e banali modalità di sopravvivenza in collaborazione con quelle di prepotenza.

L’ Empathy Museum, a fronte di questo lento scivolamento nell’oblio del sè e dell’altro, offre, concepito per temi ed eventi, una possibilità che si propone come concreto antidoto: sulle rive del Tamigi il progetto sorge a partire da un’installazione, realizzata con gli abitanti del quartiere, dal nome “A mile in my shoes”che ci richiama tutti al famoso adagio del camminare un miglio nelle scarpe, intese come panni, di qualcun’altro prima di pretendere di capirlo e giudicarlo.

Concretamente il museo dà la possibilità a chiunque voglia, di indossare un paio di scarpe di un’altra persona, con cui passeggiare per un pezzo di strada, corredandole all’ascolto di brani della sua storia di vita. Mi sembra questo davvero un esercizio salutare per tutti, un’idea di enorme valore che potrebbe essere realizzata con costi e strumenti essenziali. Basta realmente poco per cambiare rotta: se ascoltare è difficile perchè spesso non abbiamo gli strumenti per farlo, allora un atto simile diventa sfida, autentica rivoluzione urbana ed umana. Un gesto di significato e associazione, nel caos dell’insignificanza e della finta e presunta connessione tra tutti noi, dissociati in più modi.

Anche oggi all’angolo delle proposte e dei suggerimenti io auspico un serio pensiero su entrambe le idee, su come potrebbero essere immaginate e concepite nelle nostre belle città: se l’empatia è lo strumento più potente che abbiamo per capire gli altri, come ci ricorda Roman Krznaric, importante pensatore e scrittore contemporaneo, tra gli ideatori ed animatori del Museum, nessuno può esimersi dalla sfida. La posta in gioco è alta, ciascuno è testimone e protagonista. Anche una traversata di dimensioni epiche può e deve iniziare da quel semplice primo miglio.

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2 Comments

  1. Condivido, parzialmente: mi piace leggere, attività che ho svolto e svolgo con assiduità.
    Sul mio smartphone ci sono due reader e l’app kindle; ogni volta che sono in attesa, apro uno dei libri ed inizio la lettura, anche se mi rifiuto di avere un tablet, trovo mplto comoda la lettura digitale ( i libri sono più pesanti da portarsi appresso 😉 ).
    Ciao, buon pomeriggio 🙂

    • Caro Pietro, nell’ultimo anno ho acquistato tre/quattro e-book che mi sono letta dallo smartphone non avendo nè tablet nè kindle e devo dire benchè ciò abbia i suoi vantaggi (ahimè anche economici) il cartaceo per me esercita sempre un fascino superiore ed imbattibile.

      E’ proprio una sorta di ancora, come dicevo, anche un modo per stare lontana dal telefono che già mi tocca usare per molte altre funzioni. Tutto ciò a parte il piacere in sè di leggere su carta, con tutti gli appigli fisici che questa fornisce: sottolineature, appunti a margine, oltre ai segni del passaggio di altre persone quando il libro è prestato o di seconda mano. Se ti va, mi permetto di suggerirti qui sotto un mio post di qualche tempo fa che prova ad affrontare proprio questo argomento. Poi mi dirai che ne pensi. Grazie per la tua condivisione! https://quellochevale.wordpress.com/2015/03/05/carta-canta/

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