Breve

Nell’ultimo periodo in più di un’occasione ho cercato di trovare delle motivazioni discretamente valide per spiegare l’interruzione di post sul mio blog, ho stilato anche un paio di liste, ho ripescato i messaggini di quella manciata di persone che mi chiedevano quando avrei ripreso a scrivere e ho immaginato una risposta che racchiudesse un antefatto meritevole.

Ai lettori di natura indefinita che hanno fatto crescere le visite in alcuni giorni di questo periodo di stasi, persino più di altri in corrispondenza della pubblicazione di un post, poi ho tributato un pensiero particolare: che ricca e bella la componente sommersa della rete, quella che esiste e resiste, con il proprio silenzioso riserbo rimane lì non smettendo di incuriosirsi, nonostante tutto, nonostante sia ormai ampiamente appurata la difficoltà di sopravvivere alla prepotenza del web, con le sue tonnellate di materiale proveniente da ogni parte.

Ciò che mi è capitato è in realtà molto semplice: ogni blogger che tratti con minima serietà la propria attività sa che tra le prime doti dello stesso devono esserci la sincerità, la trasparenza, la capacità di spogliarsi con autenticità di fronte ai propri lettori, qualunque sia lo stile o persino l’argomento trattato. Ebbene perciò ho preferito lasciare la scrittura in sordina per un certo periodo, che all’epoca della decisione ancora non sapevo se sarebbe coinciso con due settimane o cinque anni.

In cuor mio non ho mai pensato veramente di mollare, semmai di aggiornare e rinvigorire un po’ questa piccola parte del mio mondo. Però ho sentito anche forte la necessità di vedermi, vederlo dal di fuori, lasciarlo languire, osservare la me scritta settimane e mesi dopo, leggermi più da spettatrice, modellando una qualche forma di nuova ispirazione, in accordo con i cambiamenti semi-apocalittici che intanto auspicavo e incoraggiavo per la mia vita.

Semplicemente la mia dotazione interna del suddetto periodo è stata di tanta e tale pesantezza in termini di malinconia, paranoie e difficoltà da indurmi a preferire un dignitoso e consapevole silenzio a post che rischiassero di contenere strali di brutture o invettive varie. Per carità, l’indignazione è cosa buona e giusta e a mio avviso va disseminata senza troppo risparmio ma in tal caso l’oggetto di tale operazione sarebbe stata la mia esistenza stessa, già appunto notevolmente azzoppata da se stessa, da quell’insieme di prove e fatica che in questi ultimi mesi in particolare si sono rivelate in tutto il loro carico. Come è bene che sia successo e come nella parte profonda di me sapevo prima o poi sarebbe dovuto capitare.

317h

Allora per non mancare di rispetto ai lettori e non venire meno a tale sorta di patto tacito e sacrale che si instaura nell’universo blogger, ho preferito zittirmi su questa sponda usando le risorse in modo differente, prediligendo investire la mia creatività di salvezza per raccogliere, convogliare e come sempre sublimare senza misura la zavorra in nuovi versi e poesie, per quella che prima o poi diventerà una futura raccolta.

Ciò detto, l’estate trascorsa, con in cima agosto il mese per me tiranno per antonomasia, che mi attende sempre al varco e mi scoperchia più del previsto le emotività, è stata anche pienissima di piccole meraviglie, un concentrato di domande da un milione di dollari, di risposte inaspettate, di improbabili momenti di risate e divertimento, lacrime agli occhi per certi sentimenti improvvisi ed ingovernabili. E’ stata nuovamente l’epoca della parola partenza che mai come oggi aveva fatto rima con crisi d’astinenza. Forse perchè non compivo una partenza vera da almeno tre anni: quella sacra operazione che mi portasse via da casa per più tre giorni di fila. E altre amenità del genere.

Dal peso specifico di questi ricordi probabilmente trarrò gli spunti necessari per i prossimi post, per tentare un racconto, una riflessione la più disparata possibile in termini di tematica, per raccogliere qualcosa di più di un semplice ed asettico sfogo, come è nella natura di quellocheVale.

Ci tenevo poi che tutto ciò capitasse proprio oggi, in concomitanza con il secondo anniversario dell’uscita del mio primo libro di poesie, per sentirmi su un terreno il più possibile tangibile da cui riprendere quota. Se penso a noi due, a me e a Di versi amori, che ormai ho imparato a trattare come un’entità propria ed autonoma, descriverci non è facile, pur con tutte le parole che credevo di avere a disposizione, che mi sembrano inadeguate, come di fronte ad ogni amore che si rispetti.

Sono stati due anni di notti insonni, occhi gonfi di sensazioni contenute, di una infinità di parole sussurrate, più spesso declamate. Di discussioni e pagine sgualcite, piegate, sforzate sul fianco e sul dorso, come su una schiena provata dalle ingiurie ma che mai smetterebbe di tendersi, di allungarsi verso altro, per scoprirne ancora una parte, amare malamente ma fortemente ed in modo nuovo.

Sono stati due anni di tantissimi sorrisi e molte risate, la scoperta di adorare raccontarti, raccontare te, di fronte ad un pubblico e quasi contemporaneamente desiderare di sparire per la vergogna e il riserbo, anni di corse e rincorse, appuntamenti ovunque ci volessero, avessero voglia di ascoltarci, di mani e occhi che ho lasciato ti scrutassero, a volte provando fierezza, a volte mascherando stizza verso chi tradiva sufficienza nei tuoi confronti.

Due anni intensi e tanta della tua, che poi è la mia, storia si intravede scritta ovviamente dentro, tra le pagine, nascosta e dissimulata nei versi ma anche fuori, nel suo aspetto di libro consumato fino alla consunzione, vissuto in ogni margine disponibile, lacerato in certi tratti, che ha quasi cambiato aspetto e colore ma non sapore.

Per farla breve insomma, e breve non a caso, ho pensato che un buon modo per ripartire fosse riprendendo il filo dal principio della storia, con la prima, ormai antichissima, poesia con cui forse un giorno imprecisato ogni cosa ebbe inizio.

Per tutto il resto grazie. Sono stati due anni d’amore. Tanti auguri a noi.

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BREVE
Amavamo i tralci d’autunno
le viti parevano correre sulla terra coperta
mi portavi dove l’erba mi superava in altezza
ed il sole in splendore
io ancorata a quei pochi anni
ignoravo la tempesta di un abbraccio…

Breve
sei righe
e battere le mani nel teatro che si illumina di luce tremula
lo stesso piange sotto i gradini la comparsa
fuori sciami di anziane sciantose
a correre livide
per nascondere la sconfitta

noi un brindisi all’aperto
come se potesse ancora esserci un Natale
la coda della stella cometa
ci tiene per mano
cento giorni
soffocati nello spessore del buio pesto
anche il riverbero è sufficiente
per una dose d’aria.

Adesso è sopravvivenza scomposta
con la frattura inguaribile
di chi vede come galeone di legno la bellezza in bottiglia
la vita che non paga se stessa

tutto quello che abbiamo qui fuori però
è musica
concedimi per favore questo ballo.

 

 


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