Mal d’Africa

Il mal d’Africa oggi si sente più forte che mai: la vastità e lo splendore del continente è per così dire imbarazzante al cospetto delle informazioni che ci arrivano, delle motivazioni che la portano alla ribalta, a noi così lontani ed impreparati. Certe nazioni o insieme di nazioni sembrano non esistere finchè non fanno irruzione notizie come quella di domenica scorsa. E’ il bello ed il brutto della comunicazione. Se internet o i telegiornali non esistessero come sapremmo noi di quel che accade ai nostri simili dall’altra parte del mondo? Come non lo so ma quanto forse sì, perchè ne sapremmo di più. In sostanza, intendo. Non sarebbero solo numeri, 800 invece che 900, ma sarebbero suoni, colori, usanze, riti, saperi, arti. Cioè una cultura nel suo insieme.

Torneremmo ad essere un po’ come quei ricercatori e studiosi che nei secoli XIX e XX partivano in missione per mesi o anni a vivere nei villaggi e nelle comunità sub-sahariane, sub-tropicali, dell’Oceania, dell’Asia o America Latina. Saremmo degli inesperti Charles Darwin, Bronislaw Manlinowsky, Margaret Mead o Claude Lévi-Strauss, con i propri fardelli molto più gonfi di domande che di certezze.

Proprio su Lévi-Strauss ho ritrovato riferimenti un paio di giorni fa incappando in un’intervista, rilasciata a Repubblica.it, da Francesco Remotti, tra i più autorevoli antropologi contemporanei, e di questi studioso. Remotti è stato mio docente all’Università di Torino e rileggerlo è stato un piacevole quanto amarognolo salto all’indietro nel tempo. A quando ancora pensavo alla cultura, intesa come somma di saperi, come ad uno strumento capace di cambiare il mondo, o almeno una parte di questo. Quando ancora sognavo la mia personale missione da qualche parte in Africa o America-Latina in modalità due, o più, studiosi e una capanna.

Per la quale poi non sono mai partita mentre la laurea l’ho infine presa, quando già testa e cuore stavano in tutte altre parti. Che sottile delusione l’ambiente universitario, che sensazione di accumulare sapere fine a se stesso, in un luogo di conoscenza ovattata dove nessuno si preoccupa della scintilla che custodisci dentro, significativamente lontana dal inanellare buoni voti agli esami e studiare tomi su materie dai nomi importanti.

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Oggi che il bagaglio di vita e conoscenze è cresciuto e si appresta ad esserlo sempre più, non mi sento meno in imbarazzo di fronte a certi fatti di cronaca che mi ricordano improvvisamente tutta l’infinita complessità di un continente e le sue popolazioni. L’antropologia dovrebbe aiutare, dovrebbe fornire strumenti più di tutte le altre scienze umane, dovrebbe squarciare un po’ il velo, ma forse, come Remotti spiega benissimo nell’intervista, questa non è altro che un mondo di pietà ed arroganza, di supponenza e solidarietà. Caratteristiche che mi sembrano stridere parecchio se combinate, mi ricordano non poco il mixer di sentimenti ed atteggiamenti che le stesse missioni cattoliche e occidentali in generale mettono in atto all’arrivo su quelle terre lontane e misteriose.

Secondo Remotti infatti cristianesimo e capitalismo sono state le due cause principali nel processo di distruzione della complessità meta-culturale e culturale di alcune delle popolazioni dell’Africa equatoriale da lui studiate. Dietro l’apparente semplicità di ogni gruppo sociale si trova un pensiero fortemente dettagliato, una struttura assolutamente unica. Quando lo si dimentica o lo si trascura ci si prepara ad un delitto in più sensi. Le conseguenze sono un po’ sotto gli occhi di tutti, intellettuali e non, per chi vuole e può vederle. Per chi ha forniture abbastanza solide, sia informatiche per poter rimanere aggiornati sui fatti del mondo, sia emotive per alternare accuratamente senso di colpa e menefreghismo.

L’intervista mi è piaciuta tantissimo, mi ha restituito, tra le altre cose, un po’ dell’umanità del protagonista, facendolo scendere da quel piedistallo su cui, come spesso accade in certi contesti, l’avevo collocato. Il rifiuto dell’istruzione superiore ed il senso di vuoto ed inutilità provato durante gli anni del liceo, la ristrettezza umana e sociale della vita di provincia di una piccola ed insignificante città, l’incomunicabilità tra le pareti domestiche, il rifugiarsi in una forma di sapere parallelo fatto di musica classica, poesia, psicologia, di cui racconta Remotti parlando della sua vita, del prima di diventare uno tra i grandi studiosi contemporanei, mi hanno ricordato moltissimo e da vicino, un’altra storia.

Che chissà, magari racconterò in un prossimo post. La cosa importante è il sollievo che mi hanno regalato le sue parole, una specie di conferma che lo studio dell’antropologia si radichi nel tentativo, sicuramente non del tutto consapevole, di sanare le proprie ferite umane e sociali, di dare loro un senso collettivo e persino una loro precisa bellezza. Di sentirsi meno preda in uno scenario di contemporaneità cacciatrice.

Quale forma di poesia più sublime può esserci? Oggi cerco risposta direttamente tra i componimenti di alcuni poeti africani, come ad offrire un piccolo riscatto a quella terra sconfinata e martoriata ed insieme a quella forma di sapere che vorrebbe ancora di tanto in tanto cambiare il mondo, a partire dalla propria piccola comunità, o quartiere, o palazzo, come l’antropologia e la sociologia insegnano o dovrebbero insegnare.

Certe foreste, un tempo coscienze di un popolo, alcuni riti di iniziazione indispensabili per l’ingresso alla vita, l’usanza di interrompere tutte la attività produttive per mesi in seguito al lutto di un capo o un re, o semplicemente le tombe arboree di cui parla Remotti nell’intervista, riferendosi ad alcune sue esperienze di studio sul campo, oggi rappresentano altrettanti esempi in negativo, di tali elementi sradicati, snaturati, cementificati dall’ingordigia e dall’ignoranza del cosiddetto progresso occidentale. A cui tristemente queste stesse popolazioni si stanno via via ispirando, autodistruggendosi di più.

La poesia che ho scelto racconta almeno in parte di tali prigioni, che sono dentro come fuori i confini della propria terra, quando di questa viene a mancare il rispetto della sacralità e quando si finisce per cercarlo altrove, con conseguenze come sappiamo, ancora più nefaste. L’autore, NDJOCK NGANA, è un poeta camerunense trasferito in Italia: con questo componimento descrive un inno alla diversità, ad essa come unico appiglio di salvezza. Mi colpisce la sua fortissima attualità, la capacità di abbracciare in assoluto tematiche che possono riguardare molto bene anche noi europei, o più genericamente occidentali che viviamo come su un treno che viaggia ad una velocità pazzesca ma senza guidatore, in preda al movimento ma spesso senza ricchezza di significati, come ancora ci ricorda Remotti.

C’è da dire che il vocabolo prigione non esisteva in Camerun prima dell’arrivo degli occidentali, ed è stato creato dalla radice di un altro che significa maledizione. Non resta allora molto da aggiungere. I versi per me rappresentano il più vero antidoto alla retorica: ciascuno ha la propria Africa dentro, e di questa, patisce un’ individuale mal-edizione, parlarne approfonditamente mi porta solo a perdermi di più e a capirne di meno. Leggere e rileggere invece fa bene al cuore.

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PRIGIONE

Vivere una sola vita

In una sola città

in un solo Paese
in un solo universo
vivere in un solo mondo
è prigione.

Amare un solo amico,
un solo padre,
una sola madre,
una sola famiglia
amare una sola persona
è prigione.

Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume,
una sola civiltà
conoscere una sola logica
è prigione.

Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza
avere un solo essere
è prigione.

Tratta da “Nhindo Nero”, Edizioni Anterem, 1994 – Ndjock Ngana)

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