Nomen omen

Sì, lo ammetto: a me il mio nome piace molto. E’ anzi forse uno degli aspetti che più apprezzo di me. Il nome abbreviato intendo: ho imparato che quando vengo chiamata Valentina devo iniziare a preoccuparmi, vergognarmi o interrogarmi seriamente. In tal caso sorrido, arrossisco o vado in tensione, aspettando il seguito.

Il mio nome mi colora, mi descrive, mi prende un po’in giro, mi amplifica e abbellisce i contorni del mio vivere, così come ho l’impressione che li riduca quando ne sento il bisogno. Lui è poliedrico, elastico, poliglotta, si fa maneggiare, si fa pronunciare velocemente, sguscia via ma poi ritorna sempre più sonante di prima. Grazie a lui sono persino riuscita ad intitolare un blog, tanto è virtuoso, tanto si prestava all’idea che avevo in mente.

Il mio nome mi ha fatta sentire a casa, come mai in vita mia era accaduto, in uno di quei posti che propriamente casa non potrebbe essere trattandosi della Spagna ed essendo io italianissima, di origine per lo meno, in quella nazione dove la parola vale è forse una delle più utilizzate in assoluto. E dunque l’impressione di essere chiamata continuamente ha sempre aggiunto qualcosa all’attrazione ed al legame che vivo con la Spagna.

Lo stare altrove sentendomi giustificata, al posto giusto essendo fuori posto. Percepirmi completamente accettata, inclusa, parte di una dimensione e ad un tempo tanto libera di confondermi nel tutto, potermi permettere di volta in volta di non esserci, di dissolvermi grazie al dubbio di essere interpellata o meno. Una terra speciale per lasciarsi forse. O per ritrovarsi. Non mi è così chiaro e ciò non fa che aggiungere fascino al fascino.

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E’ pur vero che non esistono profeti in patria e solitamente è più facile sentirsi trionfanti e come semplificati dal quotidiano groviglio al di fuori dei propri confini natii ma è altrettanto vero che mai come oggi mi era successo di riflettere ed inquadrare la questione del mio nome da questo punto di vista. Mai cioè da quando intorno alla mia identità ho iniziato a modellare i contorni adeguati, dandole il giusto peso e valore.

E come per una rara alchimia sento che lui ritorna dandomi ragione, facendomi sentire sulla strada giusta. E quel segnale che era sempre stato lì oggi arriva quasi come un presagio, ecco diciamo pure, quel presagio. Nomen omen ci hanno insegnato i latini.

Ho sempre pensato che per alcuni grandi, in campi di azione differenti, e anche inteso in senso negativo, questa locuzione valesse davvero. Come si potrebbe, d’altra parte contraddire la saggezza degli antichi latini? Io che non ho certo la pretesa e soprattutto l’arte per accostarmi a certi individui che a quel detto hanno saputo sul serio dare smalto (e ad onor del vero si tratta per quanto vedo e per i casi che ho in mente più di un cognomen omen), mi sono convinta che anche in Vale esiste il mio personale e potentissimo presagio che è quello del suggerimento al gioco di parole.

E’ tutto lì, scritto a chiare lettere, quattro lettere, ed è assai più facile riconoscerlo che non. La potenza evocativa che ravviso in tutto ciò è che nel gioco di parole convivono il gioco e le parole. Il primo è quanto di più sacro e semplice si possa utilizzare se l’obiettivo è di stare maggiormente possibile in contatto con se stessi, senza farci un male esagerato o senza dover accendere un mutuo nell’individuare una modalità che permetta di gestire l’operazione. Le parole dal canto loro sono una forza assoluta, sono come i numeri: inevitabili, imprescindibili, modellabili, pressochè infinite, magiche.

In alcune culture hanno un potere enorme, definitorio, stanno alla base di rituali assai importanti e conferiscono valore e riconoscimento ad individui e modelli sociali. Nella nostra, genericamente detta occidentale, dove siamo più abituati a sprecare, ci capita spesso di usarle male e senza pensarci troppo, dimenticando di misurare il registro e riconoscere la potenza che hanno, l’incidenza che portano al nostro quotidiano e alle scelte che facciamo.

Arrivano prima delle azioni per tracciare una strada che in un momento o l’altro, e con la somma di esse, diventerà destino. Loro sono lo specchio dei nostri fallimenti, dei rimorsi, del tempo buttato a dire le cose sbagliate, a ferire le persone sbagliate, a sproloquiare per argomentazioni assolutamente inutili ed infeconde, più riflesso dell’ego che altro. E poi sono anche tutto il resto naturalmente, il rovescio di quella medaglia: la radice delle nostre conquiste, dei successi, del dono indimenticabile che abbiamo saputo regalare con pochi vocaboli in certe occasioni.

Il gioco di parole assemblato appunto con questi due valori per me significa ricerca dell’arte, difficoltà e spirito. E’ una scelta di vita. I giocolieri e gli equilibristi stanno sempre in bilico, per definizione, per mission ed anche per gusto, per estetica insomma: non credo si vedrebbero completi e felici in una ipotetica condizione di equilibrio perfetto, anche ben lontano dalle proprie performance. Verrebbe meno il loro senso, la bellezza che costruiscono nella carenza d’equilibrio che c’è nell’atto. E quella si realizza giorno per giorno, anche prima, anche lontano dal palco.

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Se hanno scelto tale professione invece che quella dell’impiegato, del chirurgo o del consulente in fondo un motivo ci sarà, non certamente casuale. Per la Vale che vive in me è all’incirca lo stesso processo: il gioco di parole mi rappresenta e offre un mondo parallelo, un posto dove rifugiarmi ogni volta che quello che ho a disposizione mi diventa inagibile o troppo stretto, ed è un mondo che costruisco da me, con la sola mia fantasia. Con l’intuito e quel po’ di inevitabile sofferenza sempre costruttiva.

Non tutti saprebbero entrarci o neanche vorrebbero, c’è poi chi varca la soglia e non lo sa, chi crede invece di essersi addentrato ed è rimasto fuori. Personaggi così, che in ogni caso abbelliscono quella dimensione ed anche l’altra, sacra essa stessa, e soprattutto mi danno nuova linfa per successivi, ulteriori giochi. Protagonisti inconsapevoli che hanno il pregio di tenermi quel tanto lontana da me da permettermi poi di riprendere ad agire con il giusto piglio.

In questa magnetica dimensione del gioco di parole da cui non si torna mai veramente indietro una volta che la si è esplorata, c’è per esempio un artista che mi piace molto, a parer mio un genio equilibrista, un vero funambolo, Alessandro Bergonzoni.

Potrei sbizzarrirmi nel riportarvi qui del suo materiale, ma poichè con lui il godimento intellettuale è assicurato, oggi la scelta è caduta su un breve spezzone di uno spettacolo che mi sembrava calzante per la mia riflessione. Io dico che è speciale. Diamo alle cose il loro nome.

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