Salone di bellezza

Che effetto potente mi fa andare al Salone Internazionale del Libro di Torino: l’indomani generalmente mi torna la voglia di scrivere. Direi sia sano, dopo una piccola sbornia di momenti carichi di significato, volerne prolungare ancora un po’ la eco. E’ come transitare in un autentico salone di bellezza, per un ripristino interiore e i cui risultati permangono più evidenti almeno qualche giorno.

Ogni anno questa alchimia si compie forse per motivi unici e specifici ma sempre comunque un po’ per via dei tanti incontri fortuiti di amici e conoscenti negli angoli più impensati, in mezzo a centinaia di persone, di solito accompagnato a scambi di battute rarefatti dall’importanza del luogo, dell’evento. Forse per via di quell’ammasso di libri ammonticchiati ovunque e che non sembrano mai abbastanza, eppure insieme fai il calcolo delle ore che dovrebbero restarti da vivere per poter leggere anche solo approssimativamente tutto ciò che vorresti. Forse per via delle code infinite ad aspettare di sentire l’autore di turno e quasi mai riuscire ad accaparrarsi un posto. Non questa volta, a sentire lei.

Una delle presentazioni più brevi a cui abbia mai assistito in vita mia quella di sabato di Michela Murgia al Salone Internazionale del libro. Forse la più breve di tutte. Meno di mezz’ora divisa tra un’introduzione di cui al fondo riporto l’estratto preso in prestito dalla pagina facebook de La Pecora Elettrica (il mio video non è uscito altrettanto bene) e il reading di un brano dal suo ultimo libro Noi siamo tempesta. Eppure si è confermato un momento di rara intensità, denso di parole giuste, importanti, appassionate che idealmente estrapolate dal contesto, questo secolo, questo nostro confine italiano, questo incomprensibile (a livello di cuore e spirito e sentimenti per lo meno) magma di deriva politica ed umana potrebbero risuonare ridondanti, esagerate, inutili. Invece arrivano affilate e puntuali perché sappiamo tutti in quella sala di trecento e più persone di essere tornati indietro a ripetere un’epoca da cui si credeva di essere scampati e dunque bisogna inventarsi ogni adunata, ogni incontro possibili per ricominciare a parlare dei rischi che corriamo. Le parole che lei ci presta come monito ci serviranno, eccome, serviranno anche di più domani, ai nostri figli, a questa comunità che ci ostiniamo a non voler costruire, a non voler iniziare ad immaginare per lo meno. E sarà tutto ciò di cui avremo bisogno invece, per salvarci, per ricordarci di noi, della nostra storia buona e sana, antitesi di quella che si continua a riproporre sempre più simile a se stessa.

E a Michela non serve pronunciare nemmeno una volta il nome della famigerata casa editrice in questione, da cui scaturisce tanto del (dis)senso di questo salone, continuando gratuitamente a farle da ufficio stampa e da cassa di risonanza come è stato un susseguirsi in queste ultime settimane. Non serve nemmeno nominare alcun partito politico o rappresentante, per fortuna. Non è necessario perché al bello e all’essenziale talvolta si arriva per sottrazione, per esclusione, per memoria appunto. Qui in questo momento prezioso i respiri di tutti sembrano procedere all’unisono e per ognuno è chiaro il motivo, la causa, l’atto politico vero che ci raduna nello stesso luogo. E dunque al termine della lettura del suo brano, l’autrice ci chiede, come aveva anticipato già da alcuni giorni, di sollevare un libro che abbiamo portato con noi, uno che rappresenti in qualche modo un senso alla nostra lotta per la libertà di essere umani, ovunque e alla luce della nostra natura più autentica.

Si sollevano decine e decine di braccia, di libri, qualche istante, uno scroscio di mani, siamo tutti in piedi ad applaudire e ringraziare Michela per la forza incomparabile del suo lavoro, del suo esempio continuo: lei si copre il volto con le mani, scoppia a piangere, corre fuori dalla sala. Fino a ritornarci, qualche minuto dopo per rivelare ancora commossa che non si aspettava lo avremmo fatto davvero, che avremmo portato e sollevato lì i nostri libri-manifesto. Non ci credeva perché dice testualmente o quasi “In questo paese bisogna aspettarsi di tutto ormai”.

Poi è il tempo del bagno di folla, degli autografi sui frontespizio, sulle agende, una stretta di mano, uno scambio di battute. Qualcuno intona “Bella ciao”, parte la musica, cantiamo. Quando è il mio turno, dopo l’autografo, dico a Michela che la seguo dai tempi del suo primo libro Il mondo deve sapere, e la ringrazio per essere stata, attraverso quella testimonianza, una delle prime persone, e tutt’oggi rimasta una delle poche in Italia, a parlare e svelare la parte oscura del mondo del lavoro, denunciando gli abusi di un sistema che ne legalizza lo sfruttamento e la disumanizzazione. Lei mi ringrazia a sua volta per la fedeltà, io penso e so che anche questa è r-esistenza, i temi sono tanti, quotidiani, costanti, urgenti. Infine rimane solo più il tempo di un abbraccio e per me di defluire in qualche modo fuori dalla sala.

Al prossimo anno, alla prossima alchimia.

https://www.facebook.com/lapecoraelettricacentocelle/videos/357855398179057/

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